C’è la fame di chi va dal panettiere per avere qualcosa in regalo, e quella di chi prende gli avanzi del mercato di quartiere. Ma c’è anche la fame di chi riesce a saziarsi con diete ripetitive e di scarsa qualità – i figli delle famiglie più povere, per esempio – alimentando così l’ulteriore problema della fame nascosta, la sottonutrizione dovuta a carenza di vitamine e minerali.
1. Livelli di un problema
Tra le tante emergenze di una metropoli, la fame è una delle più elusive. La questione di un tetto sopra la testa, nella sua priorità, ha un aspetto tracciabile: se dormi ogni sera su una panchina, evidentemente ti manca una casa; e per vedere persone sulle panchine di notte, ahimè, basta fare due passi per Milano.
Ma la fame? Come individuarla, in assenza di forme immediatamente visibili quali le immagini di una carestia in un paese povero?
Rispetto alla questione dell’alloggio, così dibattuta in questi giorni, la malnutrizione può apparire un tema molto remoto, quasi ottocentesco. A Milano si muore di freddo, ma non di fame. Eppure l’intero discorso del cibo è tutt’altro che marginale, e allo stesso tempo attraversato da livelli diversi di complessità.
Persone in attesa della distribuzione del cibo davanti alla fondazione laica Pane quotidiano a Milano, nel febbraio 2009. (Stefano Pavesi, Contrasto)
C’è la fame radicale di chi non ha quasi nulla; c’è quella di chi ha qualcosa, ma non è abbastanza oppure passa uno o due giorni senza nulla nello stomaco; c’è la fame dei pensionati che arrivano a fine mese senza soldi e si recano alle file di distribuzione degli alimenti. C’è la fame di chi va dal panettiere per avere qualcosa in regalo, e quella di chi prende gli avanzi del mercato di quartiere. Ma c’è anche la fame di chi riesce a saziarsi con diete ripetitive e di scarsa qualità – i figli delle famiglie più povere, per esempio – alimentando così l’ulteriore problema della fame nascosta, la sottonutrizione dovuta a carenza di vitamine e minerali.
Il problema del cibo si inserisce quindi in un più vasto problema di difficoltà economiche e sociali che attraversa Milano come tutta l’Italia: ma in un certo senso, Milano è una buona metonimia dell’Italia – oltre che la sua città più europea e moderna, almeno all’apparenza.
Qui si può mangiare qualsiasi cosa, ovunque e più o meno a ogni ora: la retorica della cucina, così importante nel nostro paese, non tradisce. Ma la quantità e la varietà del cibo disponibile (e sprecato, continuamente sprecato) creano un evidente contrasto se pensiamo a chi non ha accesso nemmeno a quanto serve per saziarsi in maniera dignitosa.
Se ci pensiamo, certo. E più ancora: se siamo in grado di pensarci correttamente.
Quante sono infatti queste persone? Chi le aiuta a sopravvivere? Quali sono le loro speranze per il futuro? La realtà sta peggiorando o migliorando? Conoscere la vera situazione della fame nella città che sta per ospitare un’Esposizione universale dal titolo “Nutrire il pianeta” (il cui comitato scientifico si propone, tra l’altro, di “ridurre la povertà e la fame e attenuare le disparità sociali nel mondo”) appare ancora più urgente e necessario. Soprattutto se si desidera fare un discorso laico sul tema, al di là degli slogan entusiastici e delle narrazioni pacificate che stanno accompagnando il maxievento.
2. I numeri della malnutrizione
Cominciamo con qualche dato. Secondo una stima di Redattore sociale, che considera solo gli enti principali della città, i pasti serviti nelle mense per i poveri a Milano superano i due milioni all’anno. Senza contare appunto gli altri centri di accoglienza o le associazioni che distribuiscono pacchi di cibo a chi sta per strada. Una cifra notevole, ma che va ulteriormente raffinata: il numero di pasti erogati non copre con esattezza il numero di persone che li ricevono (alcuni fanno dei bis) né l’insieme totale di chi ha problemi a nutrirsi (ci sono persone che non frequentano le mense per vergogna o per mancanza di informazioni al riguardo).
Dal punto di vista demografico, l’ultimo rapporto sulle povertà nella diocesi di Milano a cura della Caritas ambrosiana evidenzia il continuo aumento degli italiani richiedenti aiuto – aumentati di circa il 23 per cento dal 2008 al 2013 – e la concentrazione dei rischi di indigenza nella fascia anagrafica dai 55 ai 65 anni. L’aumento di anziani di origine italiana con problemi a mettere insieme il pranzo con la cena è una realtà ampiamente verificata in tutte le strutture dove mi sono recato.
Allargando un po’ lo sguardo, infine, anche il Rapporto sulla crisi economica in Europa della Croce rossa (ben sintetizzato da Vita) genera preoccupazioni simili. Nel continente ci sono 43 milioni di persone con insufficienti risorse alimentari, con un incremento del 75 per cento per quanto riguarda le distribuzioni di derrate alimentari da parte della sola associazione dal 2008 al 2012. Che solo a Milano, nel dettaglio, assiste circa 50mila persone.
3. Mense e centri diurni
Come mappare, dunque, la fame in una città? Il modo più ovvio è cominciare dalle mense per i poveri e i centri di aiuto diurno. Le più attrezzate e famose a Milano sono l’Opera san Francesco e l’Opera cardinal Ferrari. Anche solo passare di fronte alle loro sedi attorno a mezzogiorno è utile per comprendere la situazione: un esercizio che consiglierei a qualsiasi milanese.
Il contrasto con la zona centrale dove ha sede l’Opera san Francesco è particolarmente rappresentativo. Il viale alberato di corso Concordia con i suoi marciapiedi ampi e l’apertura luminosa verso corso Indipendenza: i bei palazzi borghesi, i sushi bar, i locali della circonvallazione interna a due passi. E poi i capannelli di persone che attendono l’apertura della mensa, escono con i capelli umidi dalla sala delle docce, o si affacciano nella vicina via Kramer per recarsi alla prima accoglienza dell’Opera. Sono spesso divisi per nazionalità o lingua; si raggruppano fumando e chiacchierando a bassa voce; qualcuno, isolato, siede sul bordo di un’aiuola con la testa fra le mani.
“La maggior parte della nostra utenza è composta dai giovani”, mi spiega l’addetta stampa Marina Nava: “La fascia più ampia è quella fra i 30 e 40 anni, comprensiva di molti stranieri. Un momento particolarmente difficile è stato il grande afflusso di eritrei in fuga durante l’estate 2014; soprattutto per la presenza di molti bambini, per i quali non siamo attrezzati in modo specifico. In ogni caso il centro ha retto la prova”.
Sfoglio il bilancio sociale dell’associazione per avere i dati esatti: dall’inizio della crisi (2008) l’incremento di italiani è stato pari al 61 per cento, e due terzi circa hanno più di 45 anni; è ormai la seconda nazionalità che frequenta l’Opera. Per citare direttamente il documento, “sembra crescere in modo preoccupante una fascia della popolazione non ancora in povertà estrema ma che sta vivendo una situazione d’incertezza o di debolezza economica, sociale, famigliare”.
Come funziona dunque l’Opera san Francesco? Semplice. Ci si presenta allo sportello d’accoglienza, e per essere ammessi al colloquio è sufficiente presentare un documento – l’unica cosa che viene chiesta, sottolinea Marina: “Di certo non chiediamo il permesso di soggiorno, ci è sufficiente identificare la persona”.
Dopo avere dichiarato il proprio bisogno, si riceve una tessera valida tre mesi che dà diritto a due pasti al giorno negli orari previsti, una doccia alla settimana più un cambio di biancheria intima nuova, e un cambio d’abiti al mese. Il tesseramento (una pratica abituale per tutte queste realtà) può sembrare una barriera ulteriore, ma è indispensabile per evitare i raggiri e garantire un’equa distribuzione delle risorse.
Tutti i servizi dispensati sono registrati per via informatica, persona per persona. Un aspetto di controllo che può risultare a sua volta un po’ rigido, ma che invece è necessario per non creare una disparità di trattamento, e combattere il possesso di prodotti extra che poi sono rivenduti sottraendoli a chi ne ha bisogno.
Dopo tre mesi si è convocati per un nuovo colloquio di verifica della situazione. L’Opera san Francesco, in effetti, è più che altro un ente di prima accoglienza – dunque si concentra su chi ha bisogno urgente, dando strumenti immediati per orientarsi – ma guarda anche al futuro e cerca di trovare nuove prospettive, un reinserimento nella società. “Purtroppo”, aggiunge Marina, “dal 2008 si sono viste tornare alcune persone che da tempo non usufruivano più dei nostri aiuti; ma con le difficoltà recenti hanno perso quel minimo equilibrio che avevano acquisito”.
Dall’anno della fondazione (il 1959) l’Opera san Francesco si è evoluta da mensa per i poveri a erogatrice di servizi che vanno dalle visite mediche – comprensive di un servizio di psicologia e psichiatria – all’igiene e all’housing sociale, fino alla distribuzione dei farmaci (disponibile anche per italiani, che hanno la copertura del servizio sanitario, ma non i soldi per comprare i prodotti).
La mensa rimane comunque il centro dell’attività: è un locale ampio e pulito, con circa 180 coperti, che funziona con modalità self service: si entra, si convalida la tessera, e si prende da mangiare al banco per poi sedersi.
È importante ricordare che nella sala mensa convivono anche persone con religioni o usanze molto diverse; in tal senso la presenza di un frate a volte fa da elemento tranquillizzante, quando – in realtà di rado – nascono delle tensioni. Gestire così tante culture e così tante lingue non è sempre facile. La fame, però, parla sempre alla stessa maniera.
Prima di salutarci, Marina fa un’osservazione che mi colpisce molto per il suo pragmatismo: “Noi riusciamo a fare ciò che facciamo perché facciamo una carità organizzata – un’espressione che fa molto marketing, molto prosaico, me ne rendo conto. Ma è indispensabile”. Per far fronte a un problema così pressante, occorre organizzare le risorse con la massima attenzione. E un dato interessante che emerge scorrendo il loro bilancio sociale per il 2013 è il calcolo del contributo reale – il plusvalore etico, diciamo così – creato dai volontari: per ogni euro donato, circa 2,53 euro sono restituiti ai poveri in forma di aiuto.
Dicevo del contrasto tra la zona borghese e la presenza dell’Opera: nel tempo ci sono state anche molte lamentele dei residenti della zona per la grande quantità di poveri. Marina commenta con equilibrio: “Noi paghiamo dei servizi extra per tenere pulito ogni giorno; anche i residenti hanno diritto a un certo decoro – e quando tanta gente in difficoltà si ammassa, è inevitabile un certo degrado”.
Ma dalla necessità di mantenere un minimo d’ordine all’ipocrisia di chi considera la povertà un problema da risolvere allontanando i poveri c’è un abisso etico (a tal riguardo, particolarmente odiosa fu la decisione della giunta Moratti di levare gran parte delle panchine per impedire alle persone di dormirci).
L’argomento è amaro, ma va comunque affrontato con lucidità: se si vuole comprendere fino in fondo i termini del problema e non fare candide analisi da scrivania, occorre disporsi a una nuova esperienza del corpo.
Al corpo sazio e normale che diamo per scontato di vivere si oppongono dei corpi puzzolenti, sporchi, stravolti, ammalati, depressi, a volte tormentati da seri problemi psichiatrici: corpi che il cittadino comune teme e si preoccupa di scansare. Ma corpi che restano corpi esattamente come i nostri. E ci vuole molto cinismo – un’intera inversione dei termini del problema – per pensare a essi come a una questione di decenza urbana. C’è qualcosa di oscuramente calvinista, in questa reazione: l’idea inestirpabile che di fondo il povero sia colpevole.
Giulio Carloni, responsabile della comunicazione dell’Opera cardinal Ferrari, me l’ha riassunto con chiarezza: “I condòmini del palazzo accanto spesso fanno una piccola circumnavigazione per evitare i carissimi che stanno qui fuori. Perché sono poveri, perché magari odorano di vino, perché fanno paura. Ma sono soltanto persone. E, o decidiamo che esiste un certo tipo di eutanasia sociale per cui chi ha avuto sfortuna nella vita va eliminato (quantomeno dal nostro orizzonte di pensiero) oppure di queste persone bisogna prendersi cura”.
E veniamo appunto all’Opera cardinal Ferrari, che ha sede in via Boeri – una zona tranquilla a sud della circonvallazione esterna, al riparo dal traffico, con un bel parco che corre lungo la strada.
Il numero di assistiti qui è più contenuto. I numeri del 2014 registrano duecento utenti quotidiani della mensa (per un totale di 66mila pasti caldi all’anno), e 132 utenti dei pacchi viveri forniti a scadenze fisse. C’è anche una differenza anagrafica: la maggioranza dei “carissimi” – come sono chiamati, senza prosopopea e con molta convinzione, i fruitori dei servizi – ha più di 60 anni; molti non hanno un reddito fisso e una buona percentuale nemmeno la dimora.
La quantità minore di persone assistite consente di lavorare con dei programmi di recupero più profilati: il colloquio iniziale mira proprio a trovare delle azioni su misura.
Giulio Carloni mi accompagna per la struttura: la sala riposo, il piccolo giardino con un campo da bocce, le lavanderie – un’altra cosa che diamo per scontata: la possibilità di lavarsi i panni – e la biblioteca, dove vengono organizzati anche corsi di italiano e informatica.
Mentre il responsabile della sala (anch’egli un “carissimo”) chiacchiera con noi, un signore nero dall’aria patita lo saluta e chiede di fissare un appuntamento. Quando si allontana, Giulio mi svela che è un ingegnere nucleare cubano: ha lavorato ovunque nel mondo, era un uomo di talento e di successo, e poi le vicissitudini l’hanno portato qui. Resto in silenzio, ma è solo un segno della mia ignoranza: “Il luogo comune che associa il povero con il bruto o la persona senza risorse intellettuali”, spiega Giulio, “è privo di fondamento, e lo è quanto mai ora. Alcuni carissimi, come questo ingegnere, non provengono da situazioni di precarietà assoluta, bensì da vite tranquille o benestanti. Basta poco”.
Basta poco. Restiamo un po’ all’aperto a chiacchierare: è una bella giornata di sole e un gruppetto di uomini sta terminando con la solita eccitazione una partita a bocce: “Vai di punto, piano!”. “Ma che piano e piano! Fammi bocciare!”. Poi Giulio dà un’occhiata all’orologio: quasi mezzogiorno, è ora di sbrigarsi e fare un giro in mensa prima che siano distribuiti i pasti.
La cuoca Laura mi mostra la cucina, divisa rigorosamente in settori (immagazzinamento, preparazione degli alimenti, cottura, distribuzione) per garantire il massimo dell’igiene. “Scrivi che qui sono poveri, ma sono trattati da signori”, mi dice; e aggiunge che è sua cura anche prevedere i bisogni alimentari legati alla religione. “Se un giorno cucino maiale, dovrà esserci per forza anche dell’altro per chi è musulmano”. Un altro modo per pensare al cibo non come semplice fattore nutritivo, ma come condensato di culture. Può sembrare secondario, quando si ha lo stomaco vuoto: ma non lo è.
Nel frattempo all’ingresso si è già creata una lunga fila. I carissimi vengono fatti entrare con ordine, e come all’Opera san Francesco viene verificato il possesso della tessera. Altri però hanno dei biglietti: sono persone non stabilmente prese in cura, e che si limitano a un pasto ogni tanto, perché un pasto non si nega a nessuno. Inoltre, qui i piatti vengono serviti direttamente dai volontari – con guanti di plastica d’ordinanza.
Prima di salutarci, chiedo a Giulio i dettagli sulle modalità con cui sono reperiti i fondi per gestire l’Opera. Risposta: in questo caso, come per la san Francesco, ci si affida quasi per intero alle donazioni private. “Il comune copre all’incirca il 4 per cento dei nostri bisogni. Poi ci sono i fondi per progetti specifici, stanziati di volta in volta da enti e fondazioni. Paradossalmente è più facile trovare il denaro per tirare su un muro – progetto una tantum come un altro – invece che per il sostentamento regolare di un essere umano. Perché è dato per scontato”, sorride con amarezza.
Anche per questo Giulio, proprio come Marina, sottolinea la necessità di un rinnovato pragmatismo; in particolare, di un più attento lavoro sulla comunicazione. La carità va gestita in modo altamente razionale, quasi aziendale, proprio perché non può mai essere data per scontata. Una donazione è sempre gratuita, e tale deve rimanere: “Ma nulla ci vieta di sviluppare una sorta di educazione al dono”, chiosa Giulio. Far conoscere meglio il problema nelle sue sfaccettature, e coordinare ogni tipo di risorsa. Trasformare la moneta che cade nel bicchiere del mendicante in un processo più ramificato e concreto.
4. In fila per il cibo
Fratello… nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni. Il motto è rimasto identico dal 1898, quando la Società del pane quotidiano fu fondata per soccorrere i bisognosi della città, durante i tumulti di fine secolo. E oggi come allora, un altro modo per toccare con mano la fame di Milano è recarsi alle code per gli alimenti.
Vado dunque alla sede di viale Liguria una mattina di fine gennaio, sotto una pioggerella sottile: l’arco a sud della circonvallazione esterna, solcato dai bus 90 e 91 che si danno il cambio in verso opposto; il traffico nervoso di un giovedì mattina.
La distribuzione del cibo da parte dei volontari di Pane quotidiano a Milano, nel febbraio 2009.(Stefano Pavesi, Contrasto)
In due lunghe file sul marciapiede ci sono anziani italiani, qualche donna sudamericana, un signore nero ha una copia di Metro sulla testa per coprirsi. Qualcuno ha un carrellino, quasi tutti una borsa. Cappotti sdruciti, giacche a vento di seconda mano, cappelli di pile con copriorecchie, zainetti, pantaloni sformati. A quest’ora la priorità è per le persone avanti con gli anni; dalle nove e mezza invece tocca ai più giovani.
Il presidente Pier Maria Ferrario mi accompagna a fare un giro per i locali dell’associazione – la più grande tra le laiche a Milano. “Oggi piove, quindi c’è meno gente del solito”, mi accoglie. A me sembra già parecchia. Lui sorride: “Guardi, io frequento questo posto da più di trent’anni. E quando ho cominciato a venire qui c’erano ottanta o cento persone al giorno da sfamare – e non avevamo la seconda sede in viale Monza. Questo ci permetteva di cavarcela con trenta o quarantamila lire a testa per tutta una settimana. Oggi sarebbe impossibile. Il fatto è che Pane quotidiano ci è davvero scoppiato in mano”, si schermisce. “Negli ultimi anni siamo passati da centocinquantamila assistiti all’anno a ottocentomila e più: questo ci ha costretto a riorganizzare l’associazione in una forma quasi aziendale. Benché il lavoro qui sia svolto quasi per intero da volontari, soprattutto pensionati o persone senza impiego”.
Oltre alla drammatica impennata numerica anche Ferrario ha osservato un mutamento demografico nella composizione dei bisognosi. Ancora una volta, colpisce l’incremento di anziani in difficoltà.
Un volontario ci interrompe chiedendo aiuto: “C’è la moglie di Antonio, poi quella egiziana che salta la fila come al solito”. “E lei gli dica che non devono farlo, che la fila si rispetta”. “Eh, ma così sembro il cattivo!”. “Gli dica che gliel’ho detto io”. Ferrario mi fissa sconsolato, sospira: c’è sempre qualcuno che entra dal dietro, vuole essere servito prima. “Io li capisco, han tutti bisogno e sono nervosi, però dobbiamo mantenere un po’ di regole”.
Facciamo un giro. L’attività è frenetica: da un camion tre persone scaricano pacchi e carrelli, mentre nel retro c’è chi taglia una torta a fette, chi smista una derrata di abiti, chi mette in ordine file di sacchetti di noccioline tritate. Le merci vengono donate da aziende con le quali si è stretto un accordo; e naturalmente non è un meccanismo banale, vista la quantità sempre più pressante di richieste da gestire.
“Non solo”, ragiona Ferrario. “C’è anche molta gente che specula sulla solidarietà. E non le dico le offerte di ogni genere che ho ricevuto per fare politica, e sempre per il solito discorso – potere. Avere e guadagnare potere”.
“La parola più brutta del vocabolario”, dico.
“Già. Invece questa è un’associazione dove il potere non dovrebbe esistere. Né la volontà di mettersi in mostra”.
Ai cancelli di Pane quotidiano può venire chiunque – nessuno qui ti domanderà chi sei– e chiunque ha diritto a ricevere quello che l’associazione può fornire, di volta in volta: pane, certo, ma anche yogurt, latte, polenta, vestiti, dolci, sughi, carne in scatola, verdura, formaggio, frutta… Chiedo se ci sia spesso gente che se ne approfitta, e si fa una spesa gratis anche se non ne ha davvero bisogno. Ferrario alza le spalle: “Se lei adesso si mette in fila, anche lei prenderà quel che c’è. E quindi ci frega. Ma noi non mettiamo barriere”.
Usciamo a dare un’occhiata alle celle frigorifere e a quello che il presidente chiama scherzosamente il suq: il grande magazzino dove sono affastellate le derrate di alimenti. Molti saranno donati a loro volta alla Croce Rossa, per la distribuzione di cibo ai senzatetto.
Poi restiamo qualche minuto a guardare le persone che continuano a entrare dalla porta, in fila indiana. Ha smesso di piovere, fa molto freddo. Ferrario stringe i pugni nelle tasche della giacca: “Per fortuna il comune ci ha lasciato questa sede in comodato gratuito per novant’anni, ma in viale Monza dobbiamo pagare circa novemila euro all’anno di affitto. Dalla provincia non prendiamo una lira. E qui dobbiamo sistemare tutto, perché come può vedere la sede è vecchia e ha bisogno di ristrutturazioni. Non è una questione di estetica, è una questione di aiutare meglio il prossimo: non mi interessa che sia tutto elegantino, ma che loro stiano meno all’aperto e ricevano più cibo”.
5. Una parentesi sulla narrazione
(Forse avrete notato che in questo articolo non ho inserito storie dettagliate di persone che frequentano centri di supporto alimentare. Non ne troverete, così come non troverete fotografie. Questo non significa che trovi tale storie irrilevanti, o che ritenga i reportage che le raccontano poco utili – l’esatto contrario. Io stesso ho raccolto diversi aneddoti negli ultimi giorni, quasi tutti piuttosto strazianti. Ma ho deciso per qualcosa di diverso, di meno classico: vorrei evitare che il racconto di questa o quella disgrazia abbia un effetto catartico, assolva e sollevi il lettore dalle responsabilità. Potremmo chiamarla una scelta politica, in un certo senso: nessun appiglio a stratagemmi narrativi.
Inoltre, tutte queste storie tendono drammaticamente a somigliarsi, pur nella loro varietà: immigrati senza permesso di soggiorno e isolati da una lingua che non parlano; persone che hanno lavorato una vita, ma in nero, e ora non hanno forme di assistenza statali; padri divorziati che hanno perso la casa insieme agli affetti. E ancora, signore di terza età che possono contare solo sulla pensione sociale. Uomini che hanno avuto problemi di droga o alcol, o che non hanno una famiglia alle spalle, o che hanno lavorato per anni all’estero come operai e ora sono tornati in Italia senza impiego. Gente che vive per strada. Prostitute che guadagnano lo stretto necessario, ma un pasto gratis, si sa, aiuta sempre. Famiglie in apparenza “normali” che negli ultimi anni sono scivolate nella cosiddetta nuova povertà, fatta di sfinimento psicologico ancor prima che materiale. Perfino ex direttori d’azienda colpiti da una lunga serie di sventure. La fenomenologia della difficoltà conosce mille sfumature, ma anche tantissime linee comuni – e un tono di terribile quotidianità: è sempre più facile finire nell’indigenza, e il confine che separa chi sta bene da chi crolla è molto sottile. Ricordate l’ingegnere cubano all’Opera cardinal Ferrari?
Per una volta, dunque, ho voluto smettere i panni del narratore e provare a guardare al quadro generale. Del resto, per citare una signora con cui ho scambiato due chiacchiere: “Che ti devo raccontare della fame? Mi mancano i soldi della spesa. Mi mancano proprio, non dico balle. Che altro c’è da raccontare?”).
6. Spese calmierate
Un’altra possibilità, per chi ha qualche soldo in tasca e non desidera recarsi alle mense – soprattutto le famiglie in difficoltà – è frequentare i mercati solidali. Un ottimo esempio è il Social market, gestito dall’associazione Terza settimana e aperto a Milano nel 2013 in un locale confiscato alla mafia, in via Leoncavallo 12 (da poco c’è una sede anche in via Sebastiano del Piombo). L’idea base è fornire alimenti, ma anche prodotti per la casa e per i bambini, a prezzi ribassati per venire incontro a chi non riesce a fare acquisti in un supermercato qualunque.
I bisognosi sono selezionati tramite segnalazione (da parte dei servizi sociali del comune), e ricevono la possibilità di fare una spesa per un totale di 20 euro.
“Per lo più qui vengono famiglie di origine straniera”, mi dice Dario, dietro il banco dell’accoglienza. “Direi un 80-85 per cento del totale: a parità di condizione sociale, sono i meno timidi e i più informati. Poi naturalmente le famiglie hanno tempi di frequenza diversi: c’è chi viene ogni settimana, chi ogni mese… Gli iscritti al momento sono circa duemila, ma i più assidui solo un centinaio”.
Nel frattempo a Cesano Boscone (un comune di confine nel sudovest della città) ha aperto un emporio della solidarietà: cioè un supermarket dove la spesa è completamente gratuita. Anche gli empori, gestiti dalla Caritas, funzionano secondo il medesimo principio: raccolgono informazioni dai centri d’ascolto delle parrocchie e danno un credito temporaneo alle diverse persone e famiglie, che varia a seconda del grado di difficoltà in cui si trovano. Di spesa in spesa, il credito viene scalato da una tessera.
In entrambi i casi, il valore aggiunto del supermercato sociale è quello di diminuire la distanza fra “gestore della carità” e “utente della carità”: invece di ricevere un pasto o un pacco di cibo, le tessere sono a disposizione libera di chi le riceve – e spetta a lui soltanto decidere come usarle. Una sorta di rieducazione alla cura di sé, e insieme un modo per ritrovare una quotidianità “classica”. Del resto, cosa c’è di più normale, per chi è in una situazione normale, di fare la spesa?
7. Non di solo pane
Mentre lavoro a questo articolo, però, l’impossibilità di isolare il problema della fame mi appare di nuovo in tutta la sua evidenza. La malnutrizione è inscritta in forme di disagio sociale molto più ampie, e non è sempre ovvio capire quando il bisogno di cibo sia una spia, o anche un palliativo, di altri bisogni non meno importanti: il contatto umano, il riconoscimento, la lotta contro la solitudine.
Per questo un approccio completo all’idea del pasto offerto non dovrebbe dimenticare – per quanto possibile – anche la sua dimensione conviviale.
Giulio Carloni me l’ha ribadito: “Oltre a riempirgli la pancia, c’è da riempirgli la vita. E io non credo sia un caso che usiamo il verbo nutrire anche per descrivere altre realtà – nutrire un sentimento, per esempio. Se tutto si fermasse a dare le calorie necessarie a chi non le ha, sarebbe un lavoro a metà. Occorre pensare in maniera differente, ricostruire un’identità: un progetto di vita dove l’igiene e il cibo sono soltanto il primo passo”. Questi bisogni convergono su una parola che a prima vista può apparire preda delle peggiori retoriche, ma ha invece un senso profondo:dignità.
Una realtà che cerca di coniugare queste esigenze in modo originale è la Cena dell’amicizia, che ha sede nei locali della parrocchia san Pio V, in via Lattanzio. All’ingresso c’è una serie di tavolini dove gli ospiti scambiano due chiacchiere o giocano a carte. Poi si passa in un ampio stanzone con una decina di tavoli rettangolari in formica, nel tipico ambiente da associazionismo cattolico locale (benché l’associazione sia laica). Quando ci vado lo spazio è colmo, tutti i coperti occupati. Una quarantina di persone o poco più.
Giulio è un ragazzo che frequenta la Cena dell’amicizia da sei anni; ci sediamo a un tavolino in un angolo e mi illustra il senso del progetto. “Innanzitutto: non è una mensa. Si mangia insieme una volta alla settimana, di martedì, e a ogni tavolo si siedono sia gli ospiti sia i volontari, che quindi non si limitano a servire. L’idea è creare un rapporto assolutamente paritario: tant’è che anch’io racconto le mie difficoltà o le mie cose belle agli ospiti; e loro fanno lo stesso, in grande naturalezza. Diciamo che impari a vedere queste persone come persone normali”.
Anche questo è importante per ripartire: non solo garantire del cibo regolare (anche perché l’appuntamento è settimanale e non giornaliero), ma ricreare un ambiente sociale autentico, dove si possono generare nuove opportunità d’aiuto – o anche solo ritrovare il piacere di un dialogo franco, il rituale di una cena, due risate. Per questo ci sono persone che frequentano la Cena da tanti anni, anche se potrebbero arrangiarsi in altri modi. Ma qui è diverso.
“La rete di solidarietà che si viene a creare è davvero molto naturale”, prosegue Giulio. “La parola amicizia qui è autentica, per quanto possa sembrare abusata: l’aiuto che diamo non è fondato sul bisogno, ma in primo luogo sullo stare insieme”.
Una serata con loro è sufficiente per rendersi conto che non si tratta di discorsi vani. Le regole della Cena sono elementari: non si cede ciò che si ha ad altri ospiti (per evitare logiche di sudditanza psicologica, per esempio costringere qualcuno a prendere il vino per poi pretenderlo), non ci si scambia il cibo, si prende sempre il pane con le pinze… E per il resto si chiacchiera, tutto qua.
Io siedo a tavola con quattro uomini sulla strada da anni; uno di loro da poco ha una fidanzata e ogni tanto sta a dormire da lei. Gli altri si arrangiano e al momento dormono presso un’edicola in corso Italia (anche se, come mi racconta Enrico – alto e grosso, sdentato, ottimo cantante – l’idea stessa di “dormire” all’aperto muta completamente di senso).
Per tutti loro il martedì è un appuntamento fisso.
A fine pasto i volontari fanno una riunione dove discutono di eventuali problemi dei singoli, e capiscono se e come possono aiutarli: per esempio accompagnarli durante delle visite mediche, oppure leggere e compilare per loro dei dati.
Alcuni ospiti, infatti, sono analfabeti; e alcuni riconoscono come l’ignoranza li abbia spesso condotti a essere raggirati – e dunque a finire nel degrado. “La nostra utenza è formata per lo più da anziani”, continua Giulio. “Ma con la crisi degli ultimi anni, l’età media è scesa un po’”.
La nazionalità prevalente è quella italiana (con una buona percentuale locale: ho parlato in dialetto con due signori, e il milanese è una lingua corrente), anche se negli ultimi tempi sono arrivati più stranieri. Purtroppo gli italiani spesso faticano ad accettarli, soprattutto perché in là con gli anni. In un certo senso è comprensibile, ma è un ulteriore motivo di amarezza.
Non dissimile nei propositi è il ristorante Ruben al Lorenteggio, uno storico quartiere popolare del sudovest di Milano. Ogni giorno ci sono 500 coperti per pranzare al costo di un solo euro (e gratis per i figli, se hanno meno di 16 anni).
L’ente, creato dalla fondazione Ernesto Pellegrini, ci tiene a sottolineare che non fornisce solo sostentamento, ma anche e in primo luogo “ristoro”: nessuna fretta nel consumare il pasto, due menu diversi, e un luogo dove recuperare un po’ di serenità oltre che riempire semplicemente lo stomaco.
A contribuire in tal senso è certo lo spazio, molto curato e luminoso – con un tocco di design moderno. Anche in questo caso l’accesso è vincolato a un colloquio dove vengono spiegate le ragioni per cui si desidera frequentare il Ruben. Una volta ammessi, a differenza della Cena, si riceve una tessera valida 60 giorni (ma rinnovabile) che consente di accedere ai locali del ristorante.
8. Carità e giustizia
Ci sono molte altre associazioni che si occupano con efficienza e passione del problema della fame a Milano. Una panoramica completa richiederebbe ben altro spazio: spero comunque di avervi dato un’idea del modo pervasivo con cui la fame si è fatta strada nella metropoli.
Non posso che chiudere con delle domande. Le realtà assistenziali svolgono un lavoro inestimabile, e senza di esse molte persone – oggi, a Milano – avrebbero serie difficoltà a mangiare regolarmente. Ma come agire in maniera più incisiva sul problema? Come fare in modo che le istituzioni si coordinino con le realtà basate sul volontariato?
Il problema ne racchiude uno più profondo e radicale, ovvero quale tipo di società vogliamo: una dove l’assicurazione della dignità minimale di una persona non sia compito della cosa pubblica, oppure una dove lo stato si metta in primo luogo al servizio dei più deboli.
La mano che spontaneamente si muove per aiutare chi sta peggio testimonia la persistenza di un tessuto comunitario che ancora non si è spezzato sotto il peso dell’egoismo e agisce per combattere le diseguaglianze; ma è anche spia di un sistema che tollera l’ingiustizia sociale e spera di guarirla con l’iniziativa privata delle coscienze.
Per Marina Nava dell’Opera san Francesco, “un intervento delle istituzioni sarebbe più che auspicabile – anche perché noi non abbiamo aiuti di alcun tipo, solo qualche accordo con le Aziende sanitarie locali e alcuni ospedali. E se pensa alla mole del lavoro e cosa rappresenta, è stupefacente. Il pubblico conta molto sul sociale privato; mettere a punto una collaborazione che consenta di alleggerire il nostro impegno vorrebbe dire tantissimo, ma vorrebbe dire innanzitutto prendere a cuore il problema e cercare soluzioni che al momento non ci sono”.
Le cifre sono ancora più dirette: nel 2013 l’associazione ha ricevuto meno di cinquemila euro di contributi da enti pubblici, contro oltre cinque milioni di donazioni dai privati.
Che fare, quindi? Oltre a un dialogo più stretto tra parti sociali (laiche, religiose e centri occupati) con il comune, un altro ottimo spunto sarebbe quello di sfruttare leeccedenze alimentari e diminuire gli sprechi della filiera. E Giulio Carloni dell’Opera cardinal Ferrari ha insistito a lungo sulla necessità di creare un circuito anche solo tra le varie realtà impegnate nel settore: invece di agire singolarmente, comporre un vero e proprio fronte.
Davanti a una crisi così grave, occorre maggiore decisione: “Fosse anche solo per seminare il dubbio”, ribadisce. “La Milano da bere ce la siamo bevuta tutta, e da parecchio tempo: è ora di aiutare la gente a comprendere la situazione reale.”
C’è in ogni caso una buona notizia: sono da poco tornate disponibili le risorse per gli indigenti erogate dall’Unione europea, dopo quasi un anno di stasi dovuto al cambiamento istituzionale (da Pead a Fead, cioè da Programma per la distribuzione delle derrate alimentari a Fondo di aiuti europei agli indigenti). Nel dettaglio, il nostro paese ha ricevuto 670 milioni di euro ai quali se ne sommano altri 118 “locali”: è il fondo più robusto di tutto il continente, e il 60 per cento sarà destinato specificamente agli aiuti alimentari.
La speranza è che siano utilizzati al meglio, soprattutto – lo ripeto – in un momento in cui a Milano il tema del cibo rischia di essere liquidato dalla retorica dell’Esposizione universale in arrivo (l’evento, la manifestazione una tantum), senza un intervento a lungo termine.
A proposito, sarebbe quantomeno utile concretizzare il possibile accordo tra Expo e Banco Alimentare, per cui l’associazione si impegnerebbe a “ritirare la montagna di cibo che ogni sera avanzerà tra ristoranti e padiglioni, per poi darlo il giorno dopo ai poveri”. Al momento il progetto è ancora in fase di definizione; si attendono sviluppi.
Intanto, interrogarci con concretezza sulla carenza di cibo a Milano è uno dei tanti modi per interrogarci sulla bussola che dovrebbe guidarci nel trasformare l’impulso alla carità in maggiore giustizia collettiva. E fare sì che la ragazza che regge in ginocchio il cartello HO FAME o il signore che fruga imbarazzato nel cestino della spazzatura possano far parte di questo spazio con i diritti sostanziali che dovrebbero spettare a ognuno – chiunque esso sia.
INTERNAZIONALE 03 MAR 2015 Reportage di Giorgio Fontana